di FABRIZIO MASUCCI

Leggendo e rileggendo il programma, i temi giornalieri, gli hashtag dell’imminente MuseumWeek, dedicata quest’anno a “Cultura, società e innovazione”, un tarlo mi ha assillato per giorni: sono diventato un rompicoglioni seriale? Ci ha pensato mia moglie a mettere fine ai miei rovelli assicurandomi che la domanda è posta fuori tempo massimo, se non platealmente oziosa.
Per chi non lo sapesse, la MuseumWeek è un “evento offline e online” che, dal 2014, si tiene una volta all’anno e coinvolge musei, gallerie, biblioteche, archivi e organizzazioni culturali del pianeta. L’edizione 2022 ha come partner, oltre all’Unesco, la Talkwalker, multinazionale che ha sviluppato la piattaforma n° 1 di accelerazione della “consumer intelligence” al servizio dei “brand più influenti al mondo”: grazie al suo motore di IA, al machine learning e al “social listening profondo” (sic!) che consente di “monitorare ogni segnale dei clienti”, solo la piattaforma Talkwalker – recita fieramente la home del sito aziendale – “aiuta i brand a trarre vantaggio dal potenziale dei dati sui consumatori in tempo reale”. Urca!
A proposito di partner e domande oziose, se la MuseumWeek ha siffatto partner può sorgere il dubbio che siano per l’appunto oziose alcune domande rivolte nel programma alle istituzioni culturali, come – per citarne un paio – “i musei dovrebbero far parte del metaverso?” e “qual è il loro ruolo rispetto al pubblico connesso?”. O almeno che tali quesiti siano “orientati” e che chi li pone abbia già delle risposte preferite (e cercherà di sollecitarle e favorirle?). Il problema è senz’altro, però, che sono un rompicoglioni.
Mi limiterò quindi a condividere alcune perplessità e riflessioni suscitate dalla lettura del programma, scaricabile in pdf in italiano dal sito ufficiale della MuseumWeek, concentrandomi solo su due punti e prescindendo nelle mie valutazioni da chi supporta l’edizione che inizia il prossimo 13 giugno o dal fatto che Facebook e Instagram, due dei social network su cui sarà veicolata l’iniziativa, sono di proprietà di “Meta”, che non si chiama così per caso.
L’hashtag principale della prima giornata è “innovazione”, cui vengono correlati hashtag come “macchine”, “robot”, “realtàAumentata”, “metaverso”, “tecnologia”, “algoritmi”, “intelligenzaArtificiale”. Sullo sfondo di un dipinto in cui un personaggio viene digitalmente munito di visore, il solo proliferare di queste parole chiave abbinate al concetto di innovazione mi pare sia di per sé indicativo delle prospettive future dei musei e della loro fruizione da parte dei visitatori. E, soprattutto, è assai eloquente su ciò che tutti noi, volenti o nolenti, intendiamo ormai per “innovazione”, ossia “innovazione tecnologica”, dimenticandone il primario significato che è – trascrivo da tre dizionario a caso – “modificazione, perlopiù in meglio, dello stato di cose esistente; l’innovare, l’innovarsi e il loro risultato; introduzione di sistemi e criteri nuovi”. Stando ai dizionari, si potrebbe sostenere che la nascita della democrazia sia stata una “innovazione” ben più di quella di internet, ma oggi chi la definirebbe così?
Vero, mescolate alle parole chiave della giornata afferenti alla tecnologia ce ne sono altre che – pur ai miei occhi isterilite dalla retorica politically correct – sono compatibili con il più autentico senso di “innovazione”: “uguaglianza”, “diversità”, “culturaPerTutti”, “accessibilità”, “inclusione”. Temo tuttavia che tale promiscuità finisca con il suggerire in modo subliminale un nesso stringente tra il progresso tecnologico e l’accesso paritario ad arte e cultura, nesso che non è da negare a priori, ma resta tutto da dimostrare e andrebbe quantomeno problematizzato. È pacifico che il digitale consenta oggi la fruizione di beni culturali a soggetti che, a causa di impedimenti concreti, in un museo non potrebbero mai andare di persona, ed è pacifico che ciò sia una nobile “innovazione”; ritengo però altrettanto evidente che le nuove tecnologie possano anche essere fonte di nuove disuguaglianze. E ciò non solo e non tanto perché la tecnologia ha un costo, e quindi un prezzo; ma soprattutto per il motivo opposto, potenzialmente più insidioso, e cioè che una diffusione capillare di avveniristiche applicazioni tecnologiche – circostanza che permette a produttori e intermediari di offrirle a costi sempre più vantaggiosi – rischia con il tempo di far divenire elitaria (in quanto più onerosa e/o “complicata”) proprio la visita dal vivo, specie se all’esito di un viaggio.
Faccio notare, en passant, che dopo oltre due anni in cui la libertà di spostamento è stata inibita, limitata o subordinata a determinati requisiti, a seguito dello scoppio della guerra a est il più corposo rincaro registrato tra beni e servizi è quello dei voli internazionali (+103% su base annua). Poiché i rompicoglioni tendono a preoccuparsi eccessivamente per banali congiunture sfortunate, mi si passi la boutade: non è che l’immagine grossolanamente pixelata (pag. 5 del programma in italiano) di un dettaglio della “Creazione” di Michelangelo prefiguri le “esperienze di visita” di utenti, rigorosamente digitali, che non potranno permettersi visite virtuali “deluxe” e meno che mai quelle dal vivo?
La complessità del tema e la tipica verbosità da rompicoglioni mi costringono a lasciare inconcluso il primo argomento per passare al secondo, che verte sull’hashtag “MuseiNonNeutrali”. Nel programma l’hashtag fa la sua prima comparsa nella giornata del 15 giugno, il cui tema è “libertà”.
La pagina del programma dedicata al tema libertà raffigura, di fatto, la bandiera dell’Ucraina. Le parole chiave che fanno compagnia a “libertà” e “MuseiNonNeutrali” sono “democrazia”, “libertàdiEspressione”, “giustizia”, “libertàDinformazione”.
Ragazzi, non so davvero da dove cominciare, ma ci proverò.
Credo che tutti conoscano le decisioni grottesche, le indegne esclusioni e alcune imbarazzate e imbarazzanti mezze marce indietro che la “non neutralità” del mondo della cultura ha prodotto da febbraio in qua. A me e a qualche altro milione di persone – per limitarci all’Italia – pare che questa politica culturale “non neutrale” sconfessi apertamente proprio i concetti espressi dalle ultime parole chiave citate, e – peggio – tradisca il ruolo della cultura stessa. Non perché il mondo dell’arte e della cultura debba necessariamente essere neutrale (anzi esso, in quanto costituito da persone, non potrebbe esserlo fino in fondo neanche se lo volesse), ma perché urge capirsi su cosa si intenda per “non neutralità” e su come essa venga effettivamente declinata.
Mi sembra che gli ultimi anni ci abbiano mostrato istituzioni museali e culturali che si sono sistematicamente schierate in blocco dalla parte dell’ideologia politicamente corretta, sedicente progressista, sui temi di volta in volta dettati dall’agenda dei “poteri buoni” e (ma è quasi la stessa cosa) dalla catechesi dei grandi media, dei CEO onusti di gloria e dell’attivismo gradito ai salotti radical chic. Anche altri topics della MuseumWeek, e soprattutto i modi in cui sono presentati, sono sintomi dello stesso fenomeno. Curioso che la non neutralità dichiarata si traduca sempre in un’eco unanime della voce dei saggi padroni, specie in un settore – quello artistico e culturale – che si supporrebbe animato da persone dotate di una qualche vivacità intellettuale e, pertanto, fisiologicamente eterogeneo.
Sarebbe questa la non neutralità dei musei? A dispetto delle intenzioni, tali MuseiNonNeutrali risultano di fatto “neutralizzati”, disattivati proprio nella pretesa funzione di attori del progresso sociale e di animatori di un dibattito a più voci, riducendosi a megafono delle parole d’ordine à la page e ad attacchini di etichette preconfezionate.
Termini come “libertà”, “libertàdiEspressione”, “giustizia”, poco di moda fino a ieri e quasi tabù fino a ieri l’altro, ora tornano in auge se accortamente abbinati ai colori nazionali di un paese belligerante: dobbiamo quindi intendere tali termini solo nelle accezioni suggerite dall’abbinamento? Mi chiedo, piuttosto, se non potesse starci bene in tale contesto anche la parola “pace”, se non altro come timido auspicio. Si vede, però, che nel 2022 la parola non va di moda, ma chissà che prima o poi non torni a rendersi utile…
Forse mi sbaglio, però. Magari durante la Museumweek, quando si parlerà di “libertàdiEspressione” fioccheranno anche tweet a sostegno di scienziati di chiara fama censurati per aver solo pubblicato link ad articoli su riviste scientifiche di riconosciuto prestigio internazionale; l’hashtag “libertàDinformazione” indicizzerà migliaia di dichiarazioni di solidarietà a storici, politologi e freelance occidentali messi alla gogna e criminalizzati per aver diffuso le proprie idee (senza una sola fake news); la parola chiave “giustizia” scatenerà un diluvio di appelli per un giornalista che rischia 175 anni di carcere, o per un’altra freddata da un cecchino, o per i cristiani perseguitati in Africa; degli NFT (Non-fungible tokens), infine, non si parlerà tanto nelle giornate dedicate all’innovazione e ai “creatori”, ma soprattutto nella giornata dedicata all’ambiente, evidenziandone il drammatico impatto in termini di CO2.
Qui in Italia, poi, qualche museo oserà perfino ricordarsi di un filosofo bullizzato da cento “colleghi” senza uno straccio di argomentazione credibile; qualche altro, nel sentir parlare di “libertà”, si interrogherà – pensate un po’ – sulla “libertà di scelta”; nel giorno dedicato alle “lezioni di vita”, più di un’istituzione domanderà ai suoi follower se non ci sia forse qualcosa da imparare dai docenti sospesi e demansionati e dal furore “educativo” del ministro dell’istruzione; al solo sentire le parole “democrazia” e “giustizia”, ci si chiederà se sia degno di un regime democratico discriminare artisti, studiosi, persone in genere solo per la loro nazionalità, o manganellare e colpire con gli idranti manifestanti pacifici, o tenere in carcere e agli arresti domiciliari da febbraio ragazzi di vent’anni, incensurati, per la loro partecipazione a una protesta contro l’alternanza scuola-lavoro. Ma sì, c’è da aspettarsi questo e altro, anzi la MuseumWeek sarà l’occasione per ragionare su cosa diavolo sia capitato all’Occidente e rendersi conto di cos’altro gli sarebbe capitato in futuro se non ci fosse stata la provvida MuseumWeek a farlo rinsavire.
Non può che andare così, dopotutto. Questo era solo lo sproloquio di uno che – non ricordo se l’ho detto – è un grande, grandissimo, colossale rompicoglioni.
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Fabrizio Masucci. Manager culturale, già Direttore del Museo Cappella Sansevero.