di MATTIA SPANÓ

Dal punto di vista della comunicazione, il Covid-19 è una terapia. Non commetto né un errore né un refuso: il Covid-19 è la terapia di un mondo malato. Come tale è stato concepito, o almeno sfruttato.
Se assumiamo l’assioma di Paul Watzlawick, tutto è comunicazione, allora il nome che si dà alle cose è decisivo. Anche in una prospettiva meno radicale, l’ipotesi resta valida.
Il nominalismo procede per assonanze o dissonanze – è un criterio squisitamente musicale, eufonico o cacofonico – con quanto già esistente e nominato.
Il fatto che il virus abbia assunto un nome del tutto simile a certi farmaci, come Comirnaty, EN-101, Nimesulide, deve far riflettere e concludere, quanto meno sul piano ipotetico, che il virus sia la terapia.
Nessuno al ristorante ordinerebbe un piatto chiamato Rattoon Miorto, perché gli ricorderebbe un topo morto (nei paesi italofoni e ispanofoni sicuramente, forse perfino in quelli anglofoni). Non ha nessuna importanza che sia buono o meno: l’impressione destata dal nome sarebbe tale che soltanto una minima parte degli avventori accetterebbe di provare il piatto.
Nessuno comprerebbe una vettura che si chiamasse Craashi o Skassun – potrebbe essere il nome di una macchina coreana – perché penserebbe di lasciarci la pelle al primo incrocio.
Esiste una notevole varietà di mele: le Golden, le Granny Smith, le Stark, le Renette, le Imperatore. Non esistono le Kakka, che in lingua giapponese significa “eccellenza”, nel senso inglese di “milord”, mio signore, per estensione che si distacca dal consueto, che eccelle in virtù e qualità.
Tutti mangiano mele che si chiamano “rigido, desolato” (le Stark) o “nonna fabbro” (Granny Smith) evocative di qualcosa di duro, sgradevole, sporco, immangiabile. Nessuno però comprerebbe delle mele che si chiamino “eccellenza” in giapponese. Perché? Perché i nomi vengono introiettati a livello profondo, e lì si solidificano come certe schiume usate nell’industria.
Questo è razionale? No. Se non è razionale, almeno è reale? Sì. E già questo basterebbe a contestare, minandolo probabilmente alla radice, il ben noto enunciato hegeliano “tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale è razionale”.
Dal momento che non sarò certo io a smontare il grande Hegel, in un dialogo impossibile con un grande della filosofia defunto, mi limito ad osservare che egli si gioca la partita della conoscenza sul piano grammaticale degli aggettivi, trattando reale e razionale come attributi del “tutto”.
Se invece li considero come sostantivi, cioè parti del tutto, non semplici attributi, allora il problema diventa comprendere cosa accade quando il razionale si introduce nel reale e viceversa. Possono succedere allora tre cose: o il razionale si rivela irrazionale, oppure il reale si rivela irreale.
Nel terzo caso, il razionale che coincide col reale e viceversa, ha ragione il grande Hegel, il quale in definitiva ha ragione, ma parzialmente.
Ma, ed eccoci al punto dirimente, qualsiasi cosa accada una volta che ho piantato il chiodo nel muro, estrarlo intatto è pressoché impossibile. In altre parole, la dialettica fra reale e razionale modifica sia l’uno che l’altro in modo irreversibile.
Esaurita questa lunga parentesi filosofica che ci tornerà utile nelle conclusioni, torniamo al nostro virus.
Molti ricorderanno che inizialmente il virus veniva chiamato Coronavirus, che però contiene la parola “virus”, percepita come negativa. Di colpo, letteralmente, si è cominciato a chiamarlo col più neutro Covid-19, eliminando la percezione negativa legata alla parola. Un nome buono per una medicina, appunto.
Se il vostro medico curante vi prescrivesse un farmaco contro l’ipertensione chiamato Covid-19, al netto del fatto che il nome sia stato speso per indicare una patologia, non avreste alcun problema ad assumerlo.
Con una dimostrazione controintuitiva: se avessero chiamato la malattia “peste nera”, o “peste bubbonica”, o “lebbra”, o “colera”, l’uomo occidentale sanificato da decenni di disposizioni sanitarie sempre più capillari e invasive, avrebbe semplicemente rifiutato l’idea stessa della malattia giudicandola impossibile.
Allora sì che avrebbe detto: “la peste nera non esiste, ve la siete inventata”. Ovvero, avrebbe offerto una formidabile resistenza culturale anche contro l’evidenza fattuale. Ecco perché un pupazzo tenerone lo chiamo Monciccì e non Dragosputasangue Trinciabambini.
Lo stesso schema di programmazione neuro-linguistica si è applicato chiamando farmaci sperimentali genici “vaccini”. I vaccini li hanno fatti tutti sin da piccoli, tutto sommato senza conseguenze negative rilevanti, o per lo meno queste non sono state recepite sul piano psico-culturale profondo.
È molto difficile contestare in via preventiva qualcosa che in fondo ognuno, compreso il contestatore, percepisce come buono.
Chiamando il virus con il nome di un farmaco, si è occultata e resa digeribile un’idea semplice: l’umanità è malata, il virus è la terapia.
Se l’affermazione può sembrare assurda, si consideri che viviamo in una selva di messaggi decostruzionisti: l’uomo è il cancro del pianeta, il sesso è decidibile, le minoranze si comportano aggressivamente nei confronti della maggioranza, la politica è sporca, regredire felicemente è possibile e desiderabile, gli animali sono meglio di noi, al mondo siamo in troppi, l’aborto sta trasformandosi da eccezione regolamentata a diritto eccetera. Cioè messaggi che mettono radicalmente in discussione, e puntano ad eliminare, il sistema di usi, costumi e credenze che abbiamo alle spalle.
Sia che si condivida questo genere di messaggi, sia che lo si combatta, si deve riconoscere che si tratta di un autentico capovolgimento dell’ordine naturale, o culturale, delle cose. Ciò che non si condivide non si critica: si cancella.
Affermare quindi che il virus ha funzionato e sta funzionando da farmaco curativo di un mondo e un’umanità malati, è perfettamente in linea con la cultura del paradosso che si sta imponendo a colpi di maglio.
È probabile, e forse già è così, che la “terapia della terapia”, vale a dire il vaccino curativo, alla fine di questa storia faccia più morti di quanti ne abbia fatti la patologia stessa.
Il Great Reset, il green pass, la nuova normalità, la digitalizzazione galoppante, il lockdown, altre misure chiaramente folli – né reali né razionali, dunque – non si sarebbero mai affermate se un’umanità sbagliata avesse continuato a ragionare secondo i vecchi canoni culturali.
A questa “malattia”, vale a dire la ragione e il rapporto con la natura di derivazione greco-romano-giudaico-cristiano, è stata imposta una terapia: il virus. Con coerenza omeopatica, la cura del virus è la morte o l’invalidità permanente grazie ad un pharmakòn, il veleno che uccide eliminando la possibilità stessa di sventure, mali e disgrazie tipica della vita.
Di qui la possibilità fornita dal governo canadese di pagare il suicidio ai cittadini poveri, disagiati o sofferenti che ne facessero richiesta. Prima ti affamo e ti riduco la vita ad un inferno, poi ti offro di suicidarti a spese mie.
Le discussioni sui giovani pelandroni che si rifiutano di lavorare a 280 euro al mese, o meglio ancora gratis. Già che se ne parli, è una mezza ammissione che la schiavitù sia non solo possibile, ma addirittura auspicabile.
O che un insegnante dichiari ad una maturanda che bisognava impedire di fare l’esame di stato a chi non avesse ricevuto almeno un vaccino, gettandola in un limbo di potenziale disoccupazione o sottoccupazione.
Il fatto che Facebook, Twitter e Youtube si possano permettere di silenziare un presidente degli Stati Uniti, o cancellare interi canali o pagine “sgradite”.
Il fatto che si obblighino le persone a rinunciare al contante, e si chiamino i loro diritti “libertà” – qualcosa che qualunque carcerato sa benissimo può essere tolta, al contrario dei diritti di cui anche l’uomo peggiore resta titolare-.
Sono tutte piccole tessere di un grande mosaico: l’Uomo Nuovo è l’Uomo Morto.
L’effetto collaterale di una terapia come il Covid-19 è che la maggior parte della gente sopravvive. Dunque ecco il vaccino, la cura definitiva che getta molte più persone nel meraviglioso mondo della morte: l’Ade o lo Sheol, la penombra eterna in cui vagano le anime. Esse si dicono che in fondo bisogna morire, e lo accettano serenamente: una vita priva di senso e di scopo, o la cui dignità e il cui scopo siano stati distrutti, non è degna di essere vissuta né apprezzata.
La malattia mortale è la disperazione di Kierkegaard: ignoranza di sé, volontà di essere altro da sé, incapacità di essere sé. Tutta questa disperazione è stata messa in moto con la pandemia prima, la cura poi, ora la guerra. Siamo al punto che alcuni bramano l’escalation nucleare.
Suggestioni da complottisti? Può darsi. Di fatto però il turbine semantico a cui siamo sottoposti autorizza questo tipo di speculazioni. In definitiva, non si tratta di stabilire se esista o meno un “tutto” hegeliano, ma di ridefinire più prosaicamente cosa e sotto quali condizioni ne faccia parte.
Su questo la comunicazione, vale a dire la capacità di dare il giusto nome alle cose e di persuadere le persone, può dare un contributo fondamentale. A patto che riconsideri i suoi fondamenti epistemologici positivi.
Mattia Spanó si occupa di marketing online e copywriting, è imprenditore nel Congo belga, si occupa di business intelligence per importanti realtà nazionali e internazionali.