Fu un angelo a portarmi la storia

di GIORGIO BIANCHI

Nel fotoreportage non esiste un coefficiente di difficoltà come nei tuffi.

Ogni lavoro viene valutato per ciò che comunica, senza tenere in minimo conto quali criticità abbia dovuto affrontare il fotografo per realizzarlo.

Giusto o sbagliato che sia questo è quanto.

Un lavoro fatto nelle miniere di carbone artigianali del Donbass per me ha coefficiente di difficoltà dieci. Il punteggio massimo deriva dalla sommatoria di una serie di fattori che andrò brevemente ad elencare: le condizioni di illuminazione pressoché proibitive; gli ambienti claustrofobici; il fatto di dover strisciare a terra per la maggior parte del tempo e di dover essere obbligati a lavorare completamente immersi nella polvere di carbone e nel frastuono assordante dei martelli pneumatici.

Se il gioco non vale la candela, visto che a nessuno interessa quali difficoltà abbia dovuto affrontare il reporter per raccontare queste storie, perché farlo?

Mettiamola così: se non scendi la sotto e non provi sulla tua pelle cosa vogliano dire otto ore in quel buco, tu di quella gente non sarai mai in grado di dire nulla.

Un giorno mi trovavo fuori dall’ufficio di una miniera al termine di una sessione di riprese. Ad un certo punto in lontananza ebbi come una visione.

Una splendida ragazza vestita di bianco avanzava in mezzo al fango misto alla povere di carbone, tra le baracche di legno annerito.

Era la cosa “più fuori luogo” che avessi visto in tutta la mia vita. Non c’entrava nulla con quell’ambiente, anzi ne era l’esatta negazione.

Se i poveri minatori che uscivano dal buco dopo il turno di lavoro sembravano anime dannate sfuggite alle braci dell’inferno, lei somigliava ad un angelo sceso sulla terra per condurle in salvo in paradiso.

Una volta realizzato che non si stesse trattando di una allucinazione, chiesi alla mia interprete di informarsi sul motivo per il quale quella ragazza si trovasse il quel luogo dimenticato da Dio.

Prima di proseguire occorre fare una piccola premessa. La mia traduttrice è nata in URSS, ha vissuto alcuni anni in DDR e poi è tornata definitivamente in Unione Sovietica. Per quanto concerne il suo approccio al lavoro è la quintessenza del funzionario sovietico. Pertanto anche in quel caso ottemperò al compito assegnatole, alla lettera. Fu di ritorno da me in un attimo con un comunicato striminzito: “la ragazza è venuta a prendere suo padre”, punto.

Ovviamente non si era minimamente chiesta il motivo per il quale il padre necessitasse che la figlia si recasse in un luogo del genere per essere riportato a casa. A quel punto la rispedii di corsa a chiedere un supplemento di informazione.

Al suo ritorno mi riferì che era lì perché il padre è cieco. “Cieco che non ci vede” dissi io, o “ceco, della repubblica Ceca?” . “Cieco che non ci vede” disse lei. “Non è possibile, hai capito male”, “Ti dico che ho capito bene, non sono scema”, “Chiedile se può accompagnarlo in ufficio che voglio vederlo con i miei occhi”.“Ha appena finito il turno, appena si sarà cambiato verrà in ufficio”.

Fu a quel punto che vidi per la prima volta Sasha.

Entrò nell’ufficio condotto per mano dalla figlia.

Camminava incerto, tremava un poco per l’emozione. Ma soprattutto…non vedeva nulla. Si muoveva male in quell’ambiente. Ci ho ripensato decine di volte nei giorni a venire, soprattutto dopo che lo avevo visto spostarsi come un felino per i cunicoli della miniera. Oggi mi riporta in mente l’albatro di Baudelaire: quei sensi sviluppatissimi che gli consentivano di fluttuare come un uccello notturno nel buio della miniera, lo rendevano impacciato nella vita comune.

In quel momento stava percependo una diversa elettricità nell’aria e questo lo rendeva guardingo e involontariamente goffo. Lui, così sicuro tra le tenebre, tra cavi i d’acciaio che intralciano il cammino, immerso nelle pozze d’acqua fino alle ginocchia, curvo per ore per evitare le traversine troppo basse, in quel momento era messo a disagio da uno sgabello e da un tavolino fuori posto.

Ciononostante il coefficiente di difficoltà della vita di Sasha è fuori scala.

E’ un tuffo che solo lui sa fare, ogni giorno, nel cuore di tenebra di una miniera di carbone.

LINK

Blind Pitt, un film di Giorgio Bianchi e Federico Schiavi – TRAILER

 

 

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Giorgio Bianchi è un fotoreporter di guerra. Attivo in Medio Oriente e nell’area di conflitto del Donbass. Autore delle raccolte fotografiche Donbass Stories e Teatri di Guerra. Dove testimonia il conflitto nel suo impatto sulla vita delle comunità, l’orrore ma anche le tracce di bellezza e resistenza umana. Gallery

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