Effetto Rosenthal. O del desiderio di appartenenza

di GIORGIO BIANCHI

Perchè la propaganda messa in campo negli ultimi anni attecchische più facilmente sui soggetti con alto tasso di scolarizzazione ?

Seguite il ragionamento de Il Pedante e lo scopreirete. Lo sforzo sarà ampiamente ripagato.

<<[…] Il meccanismo manipolatorio agisce su due fronti. Da un lato isola una o più caratteristiche di larga diffusione – l’istruzione superiore, la residenza in un’area metropolitana, la gioventù – e le trasforma in distintivi di appartenenza a una élite sedicente virtuosa in seno alla comunità di riferimento. Dall’altro crea un’aspettativa positiva associando queste caratteristiche a preferenze politiche presentate in termini altrettanto virtuosi – l’internazionalismo, l’europeismo, la “sinistra” – e generando così nei destinatari un obbligo morale ad aderirvi, per certificare la propria appartenenza alla schiera dei migliori.


Il fenomeno sottostante, noto agli psicologi sociali come Effetto Rosenthal o Effetto Pigmalione, descrive la possibilità di indurre i comportamenti e/o le qualità di un soggetto rendendogliene manifesta l’aspettativa da parte di un’autorità o di una guida riconosciuta. Se i giornali scrivono che i cittadini più istruiti votano progressista perché sono saggi, questi ultimi tenderanno ad avverare la profezia votando progressista, sì da essere degni di annoverarsi tra i saggi. Collateralmente anche i meno istruiti, purché esposti alla narrazione, orienteranno le proprie opinioni verso il medesimo standard per assimilarsi ai migliori.

In questo modo la descrizione mediatica diventa norma coattiva, avverando se stessa.
In un altro articolo di questo blog si è visto come il principale movente politico della vasta e longeva categoria dei moderati non risieda nell’interesse o negli ideali, ma piuttosto in un desiderio di celebrare la propria superiorità aderendo agli standard etico-politici di volta in volta fabbricati e magnificati dagli organi di stampa, cioè dal potere in carica. Si è anche visto come la coltivazione di exempla negativi da cui distinguersi – gli estremisti, i razzisti, i fascisti, i terroristi, gli indifferenti, la pancia degli elettori ecc. – sia strettamente funzionale all’allestimento letterario di quegli standard virtuosi e alla loro imposizione: il terrore di finire dietro la lavagna con il cappello dell’infamia spinge i gregari a suffragare qualsiasi atto, anche il più atroce.

È il terrore atavico dell’esclusione dal branco, la cui urgenza irrazionale diventa strumento di propaganda e di sottomissione in quanto prevale sugli interessi dei singoli, anche i più legittimi, e li annulla nell’imperativo di un presunto bene spersonalizzato e comune – cioè del personalissimo bene di chi detta le trame ai giornali. Ai mezzi di informazione spetta il compito di alimentare questa aggregazione autocelebrativa coltivando simboli, mode, antagonismi e dibattiti che, per aggredire i gangli prerazionali del target, devono affondare la loro suggestione negli archetipi più radicati e ancestrali. Limitandoci al caso qui analizzato, la dialettica centro-periferia allude, sotto l’apparenza asettica del dato demografico, alla connotazione morale e intellettuale dell’urbanitas latina in quanto eleganza di modi e di eloquio e “tacita erudizione acquisita conversando con le persone colte” (Quintiliano, Inst. orat. VI III 17), da contrapporre alla grezza rusticitas. Se città e civiltà condividono il medesimo etimo (civitas), la villa (cascina, podere e, per sineddoche, la campagna tutta) partorisce non solo il villico, ma anche il villano e l’inglese villain, cioè l’antagonista, il malvagio, l’irredimibile cattivo delle fiabe.


In quanto all’istruzione, il suo riflesso positivo e condizionato ha una radice quantomeno duplice. Da un lato rimanda anch’essa alla celebrazione classica dell’erudizione e, per successiva approssimazione e sovrapposizione semantica, alla sapientia della pneumatologia cristiana che in origine identifica discernimento e saggezza. Che i dotti debbano avocare a sé la guida delle cose pubbliche era già in Platone, là dove contrapponeva alla democrazia ateniese la sofocrazia, il governo dei filosofi e dei sapienti. Dall’altro, l’attenzione al grado di istruzione innesca un automatismo pedagogico che rispecchia l’infantilismo coltivato dai media e dove la qualità degli individui è misurata in termini di diligenza e non di intelligenza. Sicché lo studente/cittadino meritevole è quello che ascolta la maestra, passa gli esami e consegue il titolo di studio, così come il politico buono è quello onesto che si attiene alle regole senza metterle in discussione, il lettore buono è quello che ripete tutto ciò che legge sui giornali e il popolo buono è quello che fa i compiti a casa di merkeliana memoria, senza interrogarsi sulla bontà del progetto politico sotteso.


Il successo di questa articolata captatio benevolentiae è tale da suscitare non solo l’autocompiacimento dei suoi destinatari – sì da renderli argilla nelle mani del manovratore di turno – ma anche un odio acerrimo verso chi non si conforma allo schema. I moderati, nonostante rappresentino di norma la maggioranza dell’elettorato (diversamente il potere non se ne curerebbe), amano immaginarsi come uno sparuto manipolo chiamato a difendere la fiamma della civiltà dai barbari. La loro forza sta nella paura, e la paura genera odio. Sicché, nei rari casi in cui la realtà non si conforma alle loro aspettative, si scagliano contro chiunque ardisca trasgredire il catechismo impartito dai loro giornali.


[…]Il subumano va arginato e interdetto per il bene di tutti e in deroga a tutto.

Leggiamo Massimo Gramellini, il direttore de La Stampa, che rompendo ogni indugio porta l’attacco al cuore del dogma democratico: La retorica della gente comune ha francamente scocciato. Una democrazia ha bisogno di cittadini evoluti, che conoscano le materie su cui sono chiamati a deliberare. La vecchietta di Bristol sapeva che il suo voto, affossando la sterlina, le avrebbe alleggerito di colpo il portafogli, dal momento che i suonatori di piffero alla Farage si erano ben guardati dal dirglielo? Ecco, Gramellini si è scocciato del popolo. E nell’esprimersi con fastidio aristocratico per la “retorica delle gente comune” promuove evidentemente se stesso al rango della gente speciale e dei “cittadini evoluti”. A che titolo? E chi ve lo ha eletto? Non ce lo spiega, né soprattutto spiega che cosa ci sia di speciale in un’opinione ragliata all’unisono da tutti i maggiori mezzi di informazione.

Resta l’effetto: quello di rendere dicibile l’indicibile – la revoca del suffragio universale – e di gettarne il tarlo nelle teste dei lettori, così da prepararli ad applaudirne l’avvento e illuderli che, quando ciò accadrà, loro non ne saranno colpiti trovandosi al sicuro sulla sponda dei migliori.


[…] Avendo chiarito che le temibili decisioni della massa ignorante non sono altro che le decisioni sgradite alla massa degli opinionisti e dei loro lettori, non è del tutto ozioso chiedersi se esista davvero, e in che misura, una correlazione tra l’istruzione/informazione degli elettori e la qualità della loro partecipazione politica.
Nel mischione semantico postmoderno, scientia (conoscenza) e sapientia (saggezza) convergono nell’accezione burocratica del sapere certificato dai titoli di studio, sicché la sofocrazia platonica – il governo dei saggi – diventa il governo dei laureati e, a fortiori, di coloro che formano i laureati, cioè dei professori. Essa diventa quindi tecnocrazia, l’esito ossessivo della contemporaneità politica in cui l’equivoco di una seduzione antica si coniuga con l’ulteriore equivoco di una competenza che si vorrebbe rivolta agli strumenti – il diritto pubblico, i regolamenti di settore, le norme contabili ecc. – e non ai fini del governo comune.
Se gli strumenti nascono al servizio dei fini, escludere dalla determinazione dei fini coloro che non conoscono gli strumenti è un modo intellettualmente puerile per avocare a sé le decisioni, nel proprio interesse. Per lo stesso risibile principio, chi non ha studiato l’armonia tonale non potrebbe esprimere preferenze musicali, chi non conosce l’aerodinamica non potrebbe decidere su quale volo imbarcarsi e a chi ignora la geologia degli idrocarburi andrebbe vietato di impostare il termostato di casa. L’aristocrazia del passato, più onesta, spregiava il vile meccanico anteponendogli l’erudizione e il lignaggio. Quella odierna lo glorifica per dare una parvenza di asettica meritocrazia ai propri capricci.
[…] Un lettore diligente mi segnala un’interessante ricerca della professoressa Penny Lewis sulla ricezione della guerra di Vietnam presso il pubblico americano. Scorrendone il testo si apprende che:
[…] in generale, i settori più istruiti del pubblico hanno sostenuto più di tutti il prolungamento dell’impegno militare americano [in Vietnam]. Nel febbraio del 1970, ad esempio, Gallup sottoponeva al campione il seguente quesito: “Alcuni senatori sostengono che dovremmo ritirare immediatamente le nostre truppe dal Vietnam: siete d’accordo?“. Tra coloro che fornirono una risposta, si espressero in favore del ritiro immediato oltre la metà degli adulti in possesso di licenza elementare, circa il 40% dei diplomati e solo il 30% di coloro che avevano frequentato un’università. Non si trattava di un’anomalia statistica. Nel maggio del 1971 il 66% dei rispondenti laureati riteneva che la guerra fosse stata un errore, a fronte del 75% dei diplomati. In generale, un’attenta lettura dei dati dimostra che nella maggior parte delle questioni riguardanti la guerra, la più forte opposizione al coinvolgimento americano in Vietnam provenne dalla parte meno istruita della popolazione.

Poiché raramente i programmi di storia dei licei si spingono oltre il Fascismo, ci piace ricordare anche ai più istruiti che cosa fu la guerra in Vientam: una lunga, inutile e sterminata carneficina, la più grande dopo la seconda guerra mondiale, con oltre 5 milioni di morti di cui quasi 4 civili, dieci nazioni coinvolte, rappresaglie, stupri, torture e milioni di sopravvissuti traumatizzati a vita. Ma essa fu anche la più grande sconfitta politica e militare degli Stati Uniti, che in quell’avventura persero oltre 160 miliardi di dollari e quasi 50.000 uomini senza ottenere nulla, se non la vergogna di un attacco infame e di una disfatta su tutti i fronti.

Inaugurata con il pretesto evergreen di proteggere un gruppuscolo esotico dai cattivoni di turno (allora erano i comunisti, oggi frequenterebbero una moschea) e degenerata nella penosa illusione di “rendere credibile la potenza” americana (cit. JFK), la guerra in Vietnam durò vent’anni. E in quei vent’anni l’opinione pubblica americana ne conobbe le atrocità leggendo i reportage, seguendo i documentari e ascoltando le testimonianze dei rimpatriati. Con il passare degli anni anche la prospettiva di un esito favorevole del conflitto appariva sempre più remota, sicché sostenere l’impegno militare dopo 15 anni di inutili stragi non era da ignoranti, ma da stupidi. E i più stupidi erano proprio i meno ignoranti.

Più avanti, nello stesso libro, si riporta la conclusione di uno studio condotto dal prof. Richard Hamilton nel 1968, secondo il quale:

    … la preferenza per le alternative politiche più “dure” si riscontra con maggior frequenza tra i seguenti gruppi sociali: i più istruiti, coloro che occupano posizioni di prestigio, le categorie ad alto reddito, i giovani e le persone che prestano molta attenzione ai giornali e alle riviste.

La testimonianza è di sorprendente attualità. Non solo perché le categorie sociali citate – gli istruiti, i prestigiosi, i benestanti, i giovani, prevalenti tra i falchi politicamente miopi di allora – sono esattamente le stesse in cui la stampa di oggi pretende invece di celebrare l’elettorato più lungimirante, ma soprattutto per la chiave di lettura che si anticipa nella chiusa. Queste persone non sono semplicemente informate, ma “prestano molta attenzione ai giornali e alle riviste“. La ricerca di Hamilton evidenzia una correlazione tra quegli status sociali e una maggiore inclinazione a lasciarsi orientare dall’informazione stampata, cioè dalla propaganda. Elidendo i termini centrali, le retoriche degli opinionisti moderni si potrebbero allora ritradurre e semplificare così: l’elettore buono è quello che fa ciò che gli dicono i giornali. A prescindere dalla condizione sociale, che è strettamente funzionale a fabbricare nei manipolati l’illusione della propria superiorità e indipendenza (se in altre circostanze i più obbedienti fossero stati gli incolti, si sarebbe detto che i colti erano inconcludenti, debosciati ecc.).

Ma perché i cittadini più istruiti sono, mediamente, anche i più esposti alla propaganda? Sul tema una lettrice mi segnala una riflessione del sociologo francese Jacques Ellul, qui sintetizzata dal curatore dell’edizione inglese di Propagandes (1962), che mi sembra centrare perfettamente il punto:

Un punto… centrale della tesi di Ellul, è che la moderna propaganda non può funzionare senza “istruzione”. Egli ribalta così la nozione prevalente secondo cui l’istruzione sarebbe la migliore profilassi contro la propaganda. Al contrario, Ellul sostiene che l’istruzione, o comunque ciò che è comunemente designato con questo termine nel mondo moderno, è il prerequisito assoluto della propaganda. Di fatto, il concetto di istruzione è ampiamente sovrapponibile a ciò che Ellul chiama “pre-propaganda”: il condizionamento delle menti tramite l’immissione di grandi quantità di informazioni tra loro incoerenti, già dispensate per altri fini e presentate come “fatti” e “cultura”. Ellul prosegue il ragionamento designando gli intellettuali come la categoria più vulnerabile alla propaganda moderna, per tre motivi: 1) assorbono la più grande quantità di informazioni non verificabili e di seconda mano; 2) sentono il bisogno impellente di esprimere un’opinione su qualsiasi importante questione di attualità, e pertanto soccombono facilmente alle opinioni offerte loro dalla propaganda su informazioni che non sono in grado di comprendere; 3) si considerano in grado di “giudicare per conto proprio”. Hanno letteralmente bisogno della propaganda.

In termini pedanti, l’istruzione scolastica al netto delle competenze tecniche che impartisce (da cui l’illusione tecnocratica) è il veicolo di trasmissione di un’impalcatura simbolica che riflette e rafforza, in termini necessariamente schematici e riduttivi, gli automatismi ideali della comunità politica di appartenenza.

Il meccanismo si è dispiegato con rara nitidezza nel corso delle recenti elezioni presidenziali austriache, dove alla netta polarizzazione dell’elettorato lungo l’asse della scolarizzazione – l’80% dei laureati e il 73% dei diplomati sceglievano l’europeista Van der Bellen – corrispondeva una polarizzazione del dibattito pre elettorale attorno al tema del presunto nazionalsocialismo del contendente di destra e della FPÖ. Nell’Austria contemporanea – come in Germania, e in Italia con il fascismo – il trascorso nazista del Paese ha subito nella memoria collettiva un processo di cristallizzazione e tabu-izziazione che lo ha relegato negli spazi irreali e irrealmente suggestivi del simbolo. Esso è diventato il Male, e non già un male storicamente attestato le cui cause possono quindi ripresentarsi – come sta infatti avvenendo nell’Europa dell’austerità brüningiana. Sicché, per fuggire l’orrore di un presunto simbolo del nazionalsocialismo, chi ne ha studiati gli orrori si rifugia in un progetto politico che ne ripropone nei fatti le cause – austerità, deflazione, disoccupazione – e le prerogative, germanocentriche e antidemocratiche.

Un ulteriore esempio, tra i tanti, è la permeabilità del pubblico al discorso pseudoscientifico (ne abbiamo scritto qui), che veicola messaggi privi di fondamento scientifico ammantandoli del lessico e del contesto – accademico, editoriale, mediatico ecc. – propri della scienza. La seduzione di questa cosmesi è evidentemente tanto più efficace verso coloro che hanno maturato un rispetto acritico e istintivo verso le insegne della scienza e dei suoi luoghi, cioè in chi ne ha più a lungo subito l’autorità nel corso degli studi. Ciò realizza puntualmente l’intuizione di Ellul: l’istruzione è necessaria per affermare l’autorità dei maestri, ma quasi mai sufficiente per verificarne gli insegnamenti.

[…] È un caso etimologico che “dotto” e “indottrinato” condividano la stessa radice (dŏcĕo), e così anche “sedotto” ed “educato” (dūco). Non è invece un caso che i cittadini più istruiti, sia per il maggior prestigio sociale di cui mediamente godono, sia per l’impalcatura simbolica dispensatagli dalla scuola, sia per un risibile e mal dissimulato orgoglio di classe, siano i bersagli non solo preferiti dalla propaganda, ma anche i più facili>>.

IL PEDANTE

Quelli della megliocrazia

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